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Come sappiamo, il “potere di disposizione” è quella prerogativa secondo cui i funzionari dell’Ispettorato del Lavoro sono autorizzati ad emanare un provvedimento scritto con cui si obbliga un datore di lavoro ad eliminare, entro trenta giorni nella maggioranza dei casi, una o più irregolarità riscontrate.

Con la sentenza n° 2778 del 21 marzo 2024, il Consiglio di Stato – rifacendosi all’art. 14 del D.Lgs. n° 124 del 2004 – estende tale potere di disposizione anche nei casi di violazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro e, in generale, in tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e di legislazione sociale.

Dunque, anche nei casi di violazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, l’Ispettorato del Lavoro può costringere un’impresa a regolarizzare le infrazioni, individuate e segnalate per iscritto, che scaturiscono dalla mancata osservazione, anche di fatto, del C.C.N.L. applicato limitatamente, però, ai diversi enunciati normativi contenuti nella “parte economica e normativa” del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, tralasciando quindi quasi tutti quelli contenuti nella “parte obbligatoria”.

Si vedano, per un ulteriore approfondimento di quanto prima riportato, la Circolare n° 5 del 2020, la Nota n° 4539 del 15 dicembre 2020 ed, in particolare, la Circolare n° 2 del 28 luglio 2020 incentrata sugli indici per la comparazione dei C.C.N.L. e la Circolare n° 9 del 10 settembre 2019 dedicata sulla fruibilità degli incentivi e contrattazione in merito alla portata dell’articolo 1, comma 1175, della Legge n° 296 del 2006, tutte emanate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Il famoso “Jobs Act” approvato dal Governo di Centro-Sinistra di allora, capeggiato dal Senatore Matteo Renzi, viene messo in discussione dalla Sentenza n° 22 del 22 febbraio 2024 emessa dalla Corte Costituzionale la quale – eliminando l’avverbio “espressamente” dall’articolo 2, primo comma, del Decreto Legislativo n° 23 del 2015 – ha stabilito che le motivazioni, tramite cui si possono considerare “nulli” i licenziamenti, non sono soltanto quelle elencate “espressamente” dall’articolo prima menzionato, ma, anche tutte le altre decise, caso per caso, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e, dunque, assisteremo in futuro al verificarsi di ulteriori casistiche di “nullità” attraverso cui un lavoratore potrà ottenere la reintegra del proprio posto di lavoro.

La decisione in questione si applicherà a tutti quei lavoratori che sono stati assunti con un contratto a tutele crescenti (cioè a partire dal 7 marzo 2015) per poi essere stati licenziati ingiustamente.

Si è giunti a tale sentenza in quanto, in precedenza, la Corte di Cassazione aveva sancito che le “nullità” escluse dall’articolo prima menzionato avevano prodotto, tutte assieme, la violazione dell’essenza stessa della Legge Delega che ha ispirato il “Jobs Act” – precisamente la violazione dell’articolo 1, settimo comma lettera c), della Legge n° 183 del 2014 – la quale, infatti, legittimava senza nessuna distinzione il ricorso al diritto della reintegra del posto di lavoro in tutti i casi dei “licenziamenti nulli”.

Di conseguenza, in virtù di tale violazione dell’essenza stessa della Legge Delega ispiratrice del “Jobs Act”, per la Corte di Cassazione si è verificato un eccesso di delega legislativa.

Per cui, la legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione, mediante la relativa Sentenza del 7 aprile 2023 emessa dalla Sezione Lavoro, è stata accolta a pieno dalla Corte Costituzionale.

In parole povere, da qui scaturisce che, per la Sentenza in questione, il famoso “Jobs Act” non ha individuato un’apposita regolamentazione da applicare anche alle altre casistiche di licenziamento considerate “nulle” che non sono state specificatamente elencate come tali nella legge perché, appunto come sappiamo, sono state escluse dall’articolo 2, primo comma, del Decreto Legislativo n° 23 del 2015.

Paradossalmente, queste altre casistiche di licenziamento considerate “nulle” – che non sono state specificatamente elencate come tali nella legge come, ad esempio, il licenziamento motivato dall’azione avviata dal dipendente per segnalare un illecito del datore di lavoro, il licenziamento in violazione delle restrizioni sui licenziamenti economici durante le emergenze nazionali certificate dallo Stato, il licenziamento contrario alle norme circa il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e il licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto per i lavoratori con problemi di tossico-dipendenza – non potendo essere configurate come licenziamenti “economici” non possono beneficiare né del diritto della reintegra del posto di lavoro e né, tantomeno, della indennità prevista per le altre forme di licenziamento illegittimo.

Tale analisi, generata dalla Cassazione, circa il vuoto normativo in questione si è basata tenendo in considerazione che la recente “giurisprudenza consolidata” – sia nel diritto del lavoro che negli altri ambiti settoriali – ha elevato al rango delle “nullità” tutte le diverse violazioni delle norme imperative.

Nella sostanza, si può dire che si ritorna, in parte, all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, periodo in cui precedenza – ricordiamo che prima il lavoratore licenziato ingiustamente otteneva in tutti i casi sempre la reintegra del posto di lavoro – i diversi Giudici avevano un più ampio ventaglio di garanzie da poter attivare a beneficio dei lavoratori, perché con la Sentenza in questione si vanno ad aggiungere ulteriori tutele rispetto a quelle previste dal “Jobs Act” anche per i licenziamenti cosiddetti “economici” e, pertanto, il diritto di reintegra del posto di lavoro non sarà una prerogativa esclusiva dei differenti licenziamenti discriminatori e di quelli disciplinari.

Sinteticamente, la Corte di Cassazione ha voluto precisare che il licenziamento “nullo” non si perfeziona unicamente nei casi dei licenziamenti discriminatori e dei licenziamenti ingiustificati (licenziamento di madre in gravidanza e in maternità, licenziamento per ragioni collegate al matrimonio, etc.).

Concludendo, limitatamente all’avverbio “espressamente” – contenuta nell’articolo 2, primo comma, del Decreto Legislativo n° 23 del 2015 – si è deliberata, ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione, la illegittimità costituzionale della norma e, quindi, ora spetta al Parlamento riformulare la norma sulla scia delle prescrizioni emanate dalla Corte Costituzionale.

Riscontriamo una clamorosa assenza di provvedimenti a supporto del ceto medio produttivo e, dunque, delle imprese e dei professionisti che, nel loro insieme, compongono il tessuto produttivo della nostra Nazione.

Sappiamo perfettamente che il Governo Meloni si trova a gestire una situazione economica e finanziaria molto ma molto complessa, senza contare le problematiche afferenti all’inflazione e ai diversi conflitti militari più o meno vicini.

Ergo, noi chiediamo con forza al Presidente Meloni e a tutti gli altri Ministri del Governo Italiano, con i rispettivi partiti politici, di approvare nella prossima Legge di Bilancio uno “scossone fiscale” riservato all’intero mondo delle attività produttive che investono sul serio nella crescita, in particolare per le micro e piccole imprese e dei professionisti.

Ci teniamo a precisare al Primo Ministro Giorgia Meloni – la quale è ben cosciente di tutto questo – che noi rappresentiamo l’Italia che lavora, che produce e che paga le tasse e, pertanto, ribadiamo che senza un supporto strutturale al ceto medio mai la nostra Nazione potrà crescere e prosperare economicamente, socialmente e culturalmente.

Inoltre, chiediamo che si approvi quanto prima un’adeguata Riforma della Burocrazia e la Riforma della Giustizia, non soltanto per migliorare i rapporti tra i cittadini, tra i cittadini e lo Stato e tra le imprese e i cittadini, ma anche per rendere altamente “attraente” la nostra Nazione anche agli occhi degli investitori stranieri.

Per il resto, la Legge di Bilancio 2024 è stata improntata in maniera seria e strutturale con l’intento di salvaguardare, con tutti i limiti dovute alle scarsissime risorse disponibili, le fasce dei lavoratori dipendenti e delle famiglie meno abbienti e, tutto questo, è per noi di notevole importanza perché si difende la domanda dei beni e dei servizi e allo stesso tempo anche il versante di chi offre i beni e i servizi e, vale a dire, il mondo produttivo che noi rappresentiamo.

Concludendo, apprezziamo anche la revisione del sistema fiscale ed, in particolare, quanto è stato introdotto con il Decreto Legislativo n° 219 del 30 dicembre 2023 per migliorare lo “Statuto dei diritti del Contribuente” con l’innesto di quei Principi Costituzionali che, elevando in questa maniera il medesimo Statuto al rango della Costituzionalità, vede ad esempio l’introduzione del divieto del “ne bis in idem” utile per neutralizzare il fenomeno delle “cartelle pazze” e l’inserimento del “principio di proporzionalità” ed, infine, la possibilità di richiedere all’Amministrazione Finanziaria una consulenza giuridica mediante un apposito interpello.

Come sappiamo, la Circolare n° 9 del 9 ottobre 2023 emanata dal Ministero del Lavoro, di concerto con il proprio Ufficio Legislativo ed anche con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ha chiarito quanto è stato approvato con la Legge n° 85 del 2023 la quale ha convertito il Decreto Lavoro del 2023 (conosciuto anche con il nome di “Decreto Calderone”) e vale a dire il Decreto Legge n° 48 del 2023.

Le novità hanno toccato sia i contratti a tempo determinato e sia la somministrazione di lavoro a tempo determinato che sono racchiuse nei seguenti ambiti:

  • la durata massima e le altre parti essenziali del contratto;
  • le “nuove causali” introdotte con la Legge n° 85 del 2023;
  • il regime delle “proroghe” e dei “rinnovi”;
  • i casi vietati;
  • la somministrazione di lavoro a tempo determinato;
  • i contratti a termine nella Pubblica Amministrazione “allargata” alle Università private e agli Enti di Ricerca privati.

1) La durata massima e le altre parti essenziali del contratto:

la Circolare sopra menzionata chiarisce che non sono state modificate le parti essenziali del contratto a termine come, ad esempio, la durata massima che rimane sempre pari a 24 mesi e il contestuale effetto della trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato.

Tale durata massima, come già previsto anche prima del Decreto Lavoro del 2023, può essere violata qualora ciò sia permesso dal C.C.N.L. applicato, purché sia in vigenza e risulti essere in attesa di rinnovo, oppure qualora venga stipulato, dinanzi l’Ispettorato del Lavoro competente territorialmente, un ulteriore contratto a tempo determinato massimo di 12 mesi e ossia come stabilito dall’art. 19, comma 3°, del D.Lgs. n° 81 del 2015.

Le altre parti essenziali, che non sono state modificate dal Decreto Lavoro del 2023, sono quelle afferenti alle “proroghe”, al “regime delle interruzioni” (stop and go), ai contratti stagionali, al diritto di precedenza, alle percentuali massime consentite in rapporto al totale dei contratti a tempo Indeterminato, al regime sanzionatorio, alle divere forme contrattuali e alla sostituzione di altri lavoratori.

In merito alle “proroghe” è possibile attivarne sempre 4 nello stesso e identico periodo di tempo pari a 24 mesi, mentre, in merito al “regime delle interruzioni” è necessario prevedere una pausa (il cosiddetto “stop and go”) di 10 giorni nei contratti inferiori ai 6 mesi oppure un intervallo di 20 giorni se si supera il semestre.

2) Le “nuove causali” introdotte con la Legge n° 85 del 2023:

il Decreto Lavoro del 2023 si differenzia dalla precedente normativa per una differente impostazione di fondo implicando che “non basta più semplicemente limitarsi ad un mero rinvio alle fattispecie legali di cui alla previgente normativa”, ma, è necessario declinare adeguatamente la casistica con il caso concreto il quale si presenta per poter continuare ad utilizzare le causali introdotte, a qualsiasi livello, dalla contrattazione collettiva (C.C.N.L., Accordi Sindacali di Secondo Livello di natura aziendale e/o territoriale).

Tutto questo è indispensabile per non subire pretese legali avanzate dai lavoratori come accadde, in una cornice normativa differente, con il D.Lgs. n. 368/2001 attraverso cui fu possibile, a suo tempo e violando le causali, ricondurre il tutto a dei contratti a tempo indeterminato in quanto il Decreto Legislativo, prima menzionato, non prevedeva un limite temporale.

Infatti, in merito alla disciplina delle condizioni (comma 1° dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015), il Decreto Lavoro in questione ha eliminato i presupposti riguardanti le “esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività” e quelle afferenti alle “esigenze connesse agli incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria” perché ha preferito valorizzare la contrattazione collettiva (C.C.N.L., Accordi Sindacali di Secondo Livello di natura aziendale e/o territoriale) intesa come l’unica sede deputata ad individuare le diverse casistiche che consentono di apporre, ai contratti a tempo determinato, un termine superiore ai 12 mesi e, comunque, entro e non oltre il limite massimo dei 24 mesi.

Pertanto, spetta sempre alla contrattazione collettiva di stabilire le diverse casistiche a patto che il tutto sia stabilito dai CCNL, dagli Accordi Sindacali di Secondo Livello di natura aziendale e/o territoriale sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e/o dalle rispettive Rappresentanze Sindacali Aziendali così come è stato previsto dalla nuova lettera a) del 1° comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015.

Sempre in base a quest’ultimo comma, e precisamente con la nuova lettera b), le parti individuali del contratto di lavoro, e vale a dire il datore di lavoro ed il prestatore di lavoro, possono decidere nuove esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva in assenza di specifiche condizioni elencate nei CCNL e sempre se queste giustificano lo sforamento del termine dei dodici mesi. Tale possibilità, però, può essere colta dalle parti individuali del contratto di lavoro fino alla data del 30 aprile 2024 in quanto ai sindacati dei lavoratori dipenenti e ai sindacati datoriali è stato concesso un congruo periodo di tempo per poter adeguare i loro contratti con quanto è stato introdotto attraverso il Decreto Lavoro.

Infine, il Decreto Lavoro in questione permette ancora l’utilizzo delle “precedenti causali” previste dai C.C.N.L. applicati, purché siano in vigenza e risultino essere in attesa di rinnovo, e l’utilizzo delle causali introdotte con l’articolo 41-bis del Decreto Legge n. 73 del 2021 per contrastare l’emergenza sanitaria, purché sempre il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato, fino alla sua vigenza, risulti essere in attesa di rinnovo.

3) Il regime delle “proroghe” e dei “rinnovi”:

in tema di regime delle “proroghe” e dei “rinnovi” la Circolare Ministeriale in questione chiarisce che nei primi 12 mesi, a decorrere dal 5 maggio 2023, possono attivarsi sia le “proroghe” e sia i “rinnovi” senza dover apporre una specifica causale.

Ci preme sottolineare

  • anche se è una banalità, che l’istituto della “proroga” ha a che fare con uno spostamento in avanti del termine, mentre, l’istituto del “rinnovo” implica la stipula di un nuovo contratto il quale inizia dopo lo scadere del precedente accordo;
  • che nella Circolare Ministeriale in questione per “contratti stipulati” ci si riferisce sia alla “proroga” e sia al “rinnovo”.

Il Decreto Lavoro ha introdotto una novità che consiste nell’azzeramento dei numeri dei contratti a tempo determinato che si possono sottoscrivere a partire dalla data del 5 maggio 2023 e, dunque, è possibile stipulare ulteriori contratti a tempo determinato senza le causali per la durata massima di 12 mesi indipendentemente dagli eventuali contratti a termine già intercorsi prima dell’entrata in vigore del Decreto Lavoro, il quale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 4 maggio scorso.

Così facendo, per questo breve periodo, si è preferito agevolare il ricorso ai contratti a termine senza causali e, sempre rispettando la durata massima dei 24 mesi, oppure la diversa durata massima prevista dai C.C.N.L. applicati, purché siano in vigenza e risultino essere in attesa di rinnovo.

Successivamente al 5 maggio 2023 è possibile, senza causali e per ulteriori 12 mesi (24 mesi se in sommatoria con la somministrazione per lo stesso livello di inquadramento), prorogare o rinnovare quei contratti a termine, scaduti dopo tale data, la cui decorrenza si sia perfezionata prima della data del 5 maggio 2023.

Se tra la data del 5 maggio 2023 e quella del 4 luglio 2023 la parti individuali del contratto di lavoro, e vale a dire il datore di lavoro ed il prestatore di lavoro, hanno rinnovato oppure prorogato un rapporto di lavoro a tempo determinato per 6 mesi, possono attivare un ulteriore contratto di 6 mesi senza causali.

4) I casi vietati:

come sappiamo, è vietato utilizzare la forma contrattuale per i rapporti di lavoro a tempo determinato – ai sensi dell’art. 20 del D.Lgs. n. 81 del 2015 che se violato, anche su controlli dell’Ispettorato del Lavoro, implica l’automatica trasformazione in un contratto a tempo indeterminato – per

  • sostituire i lavoratori in sciopero;
  • assumere altro personale nelle unità produttive in cui nei 6 mesi precedenti si sono effettuati licenziamenti collettivi di lavoratori le cui mansioni sono identiche a quelle che si intendono inserire nei nuovi contratti a termine, salvo che la durata non sia superiore ai 3 mesi e salvo che si sostituiscono dipendenti “assenti”;
  • le unità produttive interessate dall’integrazione salariale e, contestualmente, da una sospensione dal lavoro oppure da una riduzione dell’orario di lavoro, in riferimento sempre ai quei lavoratori le cui mansioni sono identiche a quelle che si intendono inserire nei nuovi contratti a termine;
  • quei soggetti datoriali che non hanno adottato il D.V.R. e vale il Documento delle Valutazioni dei Rischi previsto dalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Dunque, si coglie l’occasione per ribadire che è, invece, possibile stipulare il contratto a termine per sostituire, ad esempio, un lavoratore in “distacco” (ex art. 30 del D.Lgs. n. 276/200) oppure in “trasferta”, tendendo sempre conto di non violare le norme circa i benefici di natura contributiva come nel caso della sostituzione di una “donna in maternità” che lavora all’interno di un’impresa con meno di 20 lavoratori.

5) La somministrazione di lavoro a tempo determinato:

come primo appunto c’è da precisare che la Circolare Ministeriale in questione chiarisce che resta ancora valida, per le “parti non incompatibili” con il Decreto Lavoro, l’altra propria Circolare n° 17 del 31 ottobre 2018.

La prima novità interessa il contratto di lavoro, in ogni sua tipologia,  dell’apprendistato che se attivato mediante un contratto di somministrazione non viene considerato nel limite del 20% rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato previsto dall’art. 31, comma 1°, del D.Lgs. n. 81 del 2015 che è afferente alle somministrazioni a tempo indeterminato.

La seconda novità ha a che fare con alcune categorie di lavoratori le quali non rientrano nel calcolo del limite del 20% prima esposto e che sono le seguenti: i beneficiari da almeno 6 mesi della Naspi e della Dis-Coll, i beneficiari da almeno 6 mesi di un ammortizzatore sociale ed, infine, le persone “lavoratrici svantaggiate” e quelle persone “lavoratrici molto svantaggiate” così come identificate dal Decreto Ministeriale del Ministero del Lavoro del 17 ottobre 2017.

6) I contratti a termine nella Pubblica Amministrazione “allargata” alle Università private e agli Enti di Ricerca privati:

il Decreto Lavoro del 2023 non si applica alla Pubblica Amministrazione “allargata” e, ossia, tale normativa sui contratti a termine non interessa neanche quei contratti stipulati dalle Università private, comprese le filiazioni di atenei stranieri, e dagli Enti di Ricerca privati.

Si parla, appunto, di “settore pubblico allargato” proprio per intendere queste categorie prima elencate così come è stato stabilito dall’art. 1, comma 3°, del D.L. n. 87 del 2018 e, dunque, per tali casistiche il contratto a termine – anche se attivato con la somministrazione di lavoro – può essere instaurato senza nessuna causale e per un massimo di 36 mesi.

È un forte segnale di interesse, per il presente ed il futuro del mondo del lavoro del nostro Paese e della nostra Nazione, quello che il Governo Meloni ha voluto esternare ai cittadini italiani, alle famiglie, ai lavoratori dipendenti, ai professionisti e alle imprese tenendo simbolicamente ieri il Consiglio dei Ministri in concomitanza della Festa dei Lavoratori.

È vero che averlo convocato oggi sarebbe stato lo stesso ma è anche pur vero che ogni giorno è preziosissimo in quanto la nostra economia versa in condizioni pietose, non solo per effetto della trascorsa emergenza sanitaria, ma anche soprattutto per le politiche “scellerate” approvate, in particolare, nell’ultimo decennio e precisamente dal vecchio Governo Monti a seguire.

Di seguito sono elencate, sinteticamente, le nuove misure del “Decreto Lavoro” approvato ieri che impattano sul versante datoriale e, dunque, sul mondo produttivo che è composto da professionisti ed imprese:

  • nuove “causali” per le proroghe e i rinnovi oltre i 12 mesi dei contratti di lavoro a tempo determinato le quali saranno stabilite dai Contratti Collettivi sia Nazionali che Territoriali ed Aziendali e sia per effetto di patti individuali o di accordi sottoscritti per sostituire dipendenti assenti. Infine, si chiarisce che la “durata massima del periodo di prova” dev’essere pari ad 1 giorno ogni 15 giorni di calendario con una durata complessiva minima pari a 2 giorni;
  • eliminazione del limite di età di 29 anni per i contratti di apprendistato del comparto “turismo”. La durata di tali contratti di lavoro rimarrà sempre pari a 36 mesi;
  • innalzamento a 15 mila euro della soglia dei “PRESTO” ossia dei voucher delle prestazioni occasionali per i settori che ancora subiscono forti perdite derivanti dalla trascorsa emergenza sanitaria e vale a dire i comparti dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti balneari e dei parchi di intrattenimento e, nello specifico, da tutte le imprese in questione che hanno alle proprie dipendenze al massimo 25 lavoratori a tempo indeterminato;
  • incentivo sulle assunzioni dei giovani con età inferiore ai 30 anni iscritti al percorso “occupazione giovani” che consiste ad uno sgravio pari al 60% della retribuzione lorda mensile per 12 mesi;
  • incentivo sulle assunzioni sui percettori dell’Assegno di Inclusione (che sostituisce il Reddito di Cittadinanza) che consiste ad uno sgravio pari al 100% dei contributi a carico del datore di lavoro (50% in caso di contratto stagionale o a termine) entro il limite degli 8 mila euro e per 12 mesi che potranno essere estesi a 24 mesi in caso di trasformazione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato;
  • possibilità di effettuare, all’interno di ogni singolo contratto di lavoro individuale tra datore di lavoro e prestatore di lavoro, il rimando alle condizioni specifiche previste nel C.C.N.L. applicato con l’esclusione della comunicazione dei controlli a distanza se totalmente automatizzati;
  • obbligo per il datore di lavoro che utilizza attrezzature di lavoro di sottoporsi alla partecipazione e al superamento di uno specifico corso di formazione attinente alla sicurezza nei luoghi di lavoro;
  • sempre in merito alla sicurezza sul lavoro, obbligo della nomina del Medico Competente qualora sia previsto nel D.V.R. e vale a dire nel Documento di Valutazione dei Rischi.

Concludendo, si riportano le novità salienti emanate nel “Decreto Lavoro” in questione che interessano le famiglie e i lavoratori dipendenti che sono:

  • incremento dell’esonero sulla quota dei contributi previdenziali da luglio fino a dicembre 2023 e, nello specifico, la percentuale di esonoro passa dal 3% al 7% per i redditi inferiori ai 25 mila euro e dal 2% al 6% per i redditi compresi tra i 25 mila euro e i 35 mila euro. Si stima che il risparmio “fiscale” per tali lavoratori si aggirerà intorno ai 95/100 euro mensili;
  • aumento dell’importo dell’assegno unico per quelle famiglie in cui è presente un unico genitore che rimarrà valido anche qualora verrà a mancare il secondo genitore;
  • aumento per il 2023 entro il limite dei 3 mila euro della soglia entro cui risultano non tassabili le somme erogate dal datore di lavoro al dipendente, esclusivamente se ha familiari a carico, a titolo di welfare aziendale e a titolo di fringe benefit comprensive anche delle somme erogate per il rimborso delle utenze domestiche (acqua, luce e gas);
  • previste misure di welfare per rafforzare la conciliazione tempi di vita e lavoro per il tramite del coinvolgimento dei centri estivi e dei servizi socio-educativi;
  • aggiornamento del D.V.R. (Documento di Valutazione dei Rischi) per garantire un’ulteriore protezione in merito alla sicurezza sul lavoro all’interno delle scuole che attivano i percorsi di “alternanza scuola/lavoro” con la contestuale istituzione del Fondo per le famiglie di studenti vittime del lavoro.