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Ha preso vita, recentemente come tutti noi sappiamo, la novità in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e, precisamente, l’introduzione della famosa “Patente a Crediti” (introdotta dal Decreto Ministeriale del Ministero del Lavoro n. 132 del 2024 di natura attuativa) la quale è obbligatoria per tutte le imprese del comparto edile ed, inoltre, anche per tutte quelle altre realtà produttive che operano in un qualsiasi cantiere temporaneo o mobile, indipendentemente dal tipo di attività svolta e comprese le ditte individuali senza lavoratori dipendenti.

Sono escluse soltanto le imprese che effettuano le forniture di materiale, quelle che esercitano le attività intellettuali (geometri, ingegneri, architetti, etc.) ed, infine, i titolari di una Attestazione SOA pari o superiore alla III categoria.

Prima di illustrare i punti salienti della nuova normativa in questione, il nostro Sindacato Datoriale FederPartiteIva ricorda alle imprese e ai professionisti interessati che:

  • dal 1° ottobre è possibile già richiedere la “Patente a Crediti” (attraverso SPID o CIE oppure CNS) per il tramite del Portale dell’Ispettorato del Lavoro la “Patente a Crediti” ma, allo stesso tempo per permettere la continuazione dei lavori edili già in corso di svolgimento, è anche possibile trasmettere una apposita Autocertificazione/Dichiarazione Sostitutiva alla casella P.E.C. DichiarazionePatente@pec.ispettorato.gov.it entro e non oltre la data del 31 ottobre 2024 in quanto dal successivo 1° novembre in poi l’invio della Dichiarazione non sarà più ammessa;
  • è possibile richiedere quesiti all’Ispettorato del Lavoro scrivendo alla casella e-mail PatenteACrediti_FAQ@ispettorato.gov.it, anche per il tramite di un proprio delegato esperto in maniera di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

“Una misura senza precedenti nella qualificazione delle imprese”: così ha dichiarato il Ministro del Lavoro Marina Calderone in risposta al Question Time alla Camera dei Deputati del 26 settembre.

Per l’ottenimento dellaPatente a Crediti” (la quale conterrà l’eventuale decurtazione dei crediti con gli eventuali illeciti commessi e la quale sarà rilasciata in formato digitale) è necessario depositare l’istanza – anche con l’intervento di un soggetto delegato come, ad esempio, le imprese di consulenza in materia di sicurezza sul lavoro – per il tramite del portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro che sarà attivo dal 1° ottobre ed, inoltre, ogni datore di lavoro interessato dal nuovo obbligo normativo in questione dovrà rispettare diversi obblighi “informativi” tra cui quello di comunicare il tutto entro 5 giorni agli R.L.S. (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) e agli eventuali R.L.S.T. (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriale).

I diversi requisiti (che in totale sono 6) per ottenere la “Patente a Crediti”, i quali non sono sempre tutti assieme richiesti come è stato precisato dalla prima Circolare n° 4 del 2024 emanata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, possono essere differenti in relazione all’attività esercitata, al personale dipendente e alla tipologia e valore dei lavori da eseguire e sono di seguito riportati:

  • certificato di iscrizione alla Camera di Commercio;
  • D.U.R.C. in corso di validità;
  • D.V.R. (Documento di Valutazione dei Rischi) qualora vi sia almeno un lavoratore, sia se trattasi di un dipendente che del titolare o di un socio o di un collaboratore;
  • attestati dei corsi di formazione obbligatoria in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;
  • nomina del R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) qualora vi sia almeno un lavoratore, sia se trattasi di un dipendente che del titolare o di un socio o di un collaboratore;
  • certificazione di regolarità fiscale.

Invece, la sanzione amministrativa prevista sarà pari al 10% del valore dei lavori e in ogni caso non inferiore ai 6 mila euro e sarà inflitta sia al Titolare della “Patente a Crediti” e sia al Committente dei lavori qualora si acceda nei cantieri edili senza la “Patente a Crediti” oppure qualora si acceda con la Patente dotata di un Credito inferiore a 15.

Dunque, il numero minimo di crediti necessari per lavorare nei cantieri è 15.

Agli iniziali 30 crediti attribuiti a tutte le imprese interessate dalla nuova normativa in questione si potrà procedere alla reintegrazione dei crediti qualora si abbia meno di 15 crediti per il tramite di attività riconosciute da una apposita Commissione ed, inoltre, si potranno aggiungere ulteriori 30 crediti riconosciuti per l’anzianità afferente alla regolarità e alla correttezza mantenuta da quei datori di lavoro più virtuosi.

Ancora, la “Patente a Crediti” potrà essere sospesa fino a 12 mesi, qualora si verifichino infortuni mortali oppure casistiche di inabilità permanente assoluta o parziale, oppure potrà essere revocata (e richiesta nuovamente soltanto dopo 12 mesi dalla data della revoca) qualora si accerti la non veridicità di una o più dichiarazioni fornite in merito agli specifici requisiti richiesti.

Concludendo, qualora si perfezioni una fusione, anche per incorporazione, la nuova persona giuridica acquisirà il punteggio dell’impresa titolare della patente con il maggior numero di crediti ed, infine, qualora si perfezioni una trasformazione il nuovo soggetto imprenditoriale conserverà il punteggio dell’impresa trasformata o conferente.

Per effetto della conversione del Decreto Legge n. 19 del 2024 per il tramite della Legge n. 56 del 2024, in caso di appalti e di subappalti i lavoratori dipendenti hanno diritto a percepire un trattamento economico e normativo “adeguato” a prescindere dal CCNL applicato dall’impresa e, vale a dire, un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello stabilito dal CCNL sottoscritto dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale aderente con il comparto economico e con l’ambito territoriale afferenti con i lavori individuati dall’appalto o dal subappalto.

Quando parliamo di appalti e di subappalti non ci riferiamo esclusivamente all’edilizia ma a tutti i settori economici.

Quindi, è bene precisare che – ad esempio nel caso di un’impresa edile che si aggiudica un appalto sulle mense scolastiche – si dovrà prendere in riferimento il C.C.N.L. comparativamente più rappresentativo sul piano nazionale afferente al comparto della “ristorazione collettiva”, mentre, in merito alla “zona” territoriale di applicazione del C.C.N.L. in questione c’è da ricordare soltanto che bisogna applicare, se esistono chiaramente, anche gli eventuali “Accordi Sindacali di Secondo Livello” del comparto in questione cuciti su misura per l’ambito comunale o anche per un ambito territoriale più esteso ma che sia comunque inferiore a quello provinciale.

In tutto questo, sono tenuti al controllo gli Ispettori del Lavoro, in primis ma non solo, i quali potranno emettere una diffida accertativa per crediti patrimoniali ai sensi dell’ex art. 12 del Decreto Legislativo n. 124 del 2004 con l’elencazione dei crediti riscontrati dalla comparizione tra il CCNL “leader” ed il CCNL “applicato” nei confronti dei tre soggetti individuati e, ossia, il committente, l’appaltatore e il subappaltatore i quali, se non vi ottemperano, saranno costretti a subire il relativo provvedimento che acquisterà efficacia di titolo esecutivo.

Dunque, l’impresa aggiudicatrice di un appalto o di un subappalto non è obbligata a cambiare il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro che già applica in quanto è soltanto vincolata a rispettare, per l’intero periodo dell’appalto o del subappalto, le disposizioni introdotte dalla Legge n. 19 del 2024.

Tali novità normative si applicano anche ai Committenti poiché potrebbero essere coinvolti a presentarsi dinanzi il Tribunale, entro i due anni dalla data di conclusione del contratto di appalto o di subappalto e perché obbligati in solido con l’appaltatore e il subappaltatore, su iniziativa di quei lavoratori che non potranno recuperare nulla o poco dagli stessi appaltatori e subappaltatori.

Recentemente, con l’approvazione del Decreto Legge n° 60 del 7 maggio 2024 meglio conosciuto come il “Decreto Coesione”, sono state introdotte novità in materia dei rapporti di lavoro.

È stato così denominato perché si è inteso realizzare l’obiettivo della “coesione” il quale è stato individuato in sede di revisione del PNRR e, dunque, per finalizzare adeguatamente i relativi interventi di politica di coesione 2021 – 2027 i quali sono destinati per ridurre i divari esistenti tra i diversi ambiti territoriali della nostra Nazione.

Nella sostanza, il Decreto Coesione è incentrato sulle misure che favoriscono l’auto-imprenditorialità e l’auto-impiego in generale, l’occupazione delle donne e dei giovani ed, infatti, ben 2,8 miliardi di euro sono stati destinati sul Programma Nazionale “Giovani, Donne e Lavoro 2021 – 2027”, sull’altro Programma Nazionale “G.O.L. Garanzia Occupabilità dei Lavoratori” ed, infine, sulle politiche di sostegno per la riconversione delle competenze dei dipendenti appartenenti alle grandi imprese che versano in crisi economica.

Si elencano i principali interventi del Decreto Coesione i quali sono i seguenti:

1) politiche di formazione, di orientamento e di tutoraggio a favore dell’auto-impiego nell’ambito dell’impresa e nell’ambito delle professioni e del lavoro autonomo in generale.
Nel dettaglio, gli interventi in questione sono quelli racchiuse nella misura denominata “Autoimpiego Centro-Nord Italia” e in quella di “Resto al Su 2.0” che si rivolgono ai giovani under 35 e ai disoccupati destinatari della misura “G.O.L. Garanzia Occupabilità dei Lavoratori”;

2) doppio incentivo della durata massima di 3 anni (e comunque non oltre il 31 dicembre 2028) per quei lavoratori under 35 i quali avvieranno un’impresa nel settore strategico afferente allo sviluppo di nuove tecnologie e per la transizione digitale ed ecologica che consiste sia nell’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro entro il limite di 800 euro mensili per ciascun dipendente under 35, assunto dal 1° luglio 2024 e fino al 31 dicembre 2025, con un contratto a tempo indeterminato (ad eccezione dell’apprendistato e del lavoro domestico) e sia nell’ottenimento di un contributo di 500 euro mensili da richiedere all’INPS;

3) Bonus “Giovani” che dà diritto per un periodo massimo di 24 mesi all’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro entro il limite mensile di 500 euro per ciascun dipendente under 35 assunto, dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, con un contratto a tempo indeterminato (ad eccezione dell’apprendistato e del lavoro domestico). Tale importo viene esteso a 650 euro mensili se le assunzioni in questione sono inerenti a quelle imprese che operano nelle regioni Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna;

4) Bonus “Donne” che dà diritto per un periodo massimo di 24 mesi all’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro entro il limite mensile di 650 euro per ciascuna donna assunta, dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, con un contratto a tempo indeterminato (ad eccezione dell’apprendistato e del lavoro domestico). Tale incentivo è destinato alle donne di qualsiasi età disoccupate da almeno 6 mesi e residenti nelle regioni della Z.E.S. Unica per il Mezzogiorno e a quelle donne di qualunque età disoccupate da almeno 24 mesi e residenti in qualunque regione d’Italia;

5) Bonus “Z.E.S. UNICA PER IL SUD” (Zona Economica Speciale Unica per il Mezzogiorno) che dà diritto per un periodo di 24 mesi all’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro entro il limite mensile di 650 euro per ciascun dipendente under 35 (disoccupato da almeno 24 mesi) assunto, dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, con un contratto a tempo indeterminato da quelle imprese che impiegano fino a 10 lavoratori dipendenti e che operano nelle regioni Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna;

6) modifiche alla piattaforma S.I.I.S.L. (Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa) che permetterà, su base volontaria, alle imprese di pubblicare le proprie richieste di posizioni lavorative vacanti e ai cittadini di ricercare una tipologia di occupazione. Tale piattaforma SIISL sarà implementata con l’intelligenza artificiale per rendere efficace, finalmente, l’incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro.

Come sappiamo, il “potere di disposizione” è quella prerogativa secondo cui i funzionari dell’Ispettorato del Lavoro sono autorizzati ad emanare un provvedimento scritto con cui si obbliga un datore di lavoro ad eliminare, entro trenta giorni nella maggioranza dei casi, una o più irregolarità riscontrate.

Con la sentenza n° 2778 del 21 marzo 2024, il Consiglio di Stato – rifacendosi all’art. 14 del D.Lgs. n° 124 del 2004 – estende tale potere di disposizione anche nei casi di violazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro e, in generale, in tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e di legislazione sociale.

Dunque, anche nei casi di violazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, l’Ispettorato del Lavoro può costringere un’impresa a regolarizzare le infrazioni, individuate e segnalate per iscritto, che scaturiscono dalla mancata osservazione, anche di fatto, del C.C.N.L. applicato limitatamente, però, ai diversi enunciati normativi contenuti nella “parte economica e normativa” del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, tralasciando quindi quasi tutti quelli contenuti nella “parte obbligatoria”.

Si vedano, per un ulteriore approfondimento di quanto prima riportato, la Circolare n° 5 del 2020, la Nota n° 4539 del 15 dicembre 2020 ed, in particolare, la Circolare n° 2 del 28 luglio 2020 incentrata sugli indici per la comparazione dei C.C.N.L. e la Circolare n° 9 del 10 settembre 2019 dedicata sulla fruibilità degli incentivi e contrattazione in merito alla portata dell’articolo 1, comma 1175, della Legge n° 296 del 2006, tutte emanate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Il famoso “Jobs Act” approvato dal Governo di Centro-Sinistra di allora, capeggiato dal Senatore Matteo Renzi, viene messo in discussione dalla Sentenza n° 22 del 22 febbraio 2024 emessa dalla Corte Costituzionale la quale – eliminando l’avverbio “espressamente” dall’articolo 2, primo comma, del Decreto Legislativo n° 23 del 2015 – ha stabilito che le motivazioni, tramite cui si possono considerare “nulli” i licenziamenti, non sono soltanto quelle elencate “espressamente” dall’articolo prima menzionato, ma, anche tutte le altre decise, caso per caso, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e, dunque, assisteremo in futuro al verificarsi di ulteriori casistiche di “nullità” attraverso cui un lavoratore potrà ottenere la reintegra del proprio posto di lavoro.

La decisione in questione si applicherà a tutti quei lavoratori che sono stati assunti con un contratto a tutele crescenti (cioè a partire dal 7 marzo 2015) per poi essere stati licenziati ingiustamente.

Si è giunti a tale sentenza in quanto, in precedenza, la Corte di Cassazione aveva sancito che le “nullità” escluse dall’articolo prima menzionato avevano prodotto, tutte assieme, la violazione dell’essenza stessa della Legge Delega che ha ispirato il “Jobs Act” – precisamente la violazione dell’articolo 1, settimo comma lettera c), della Legge n° 183 del 2014 – la quale, infatti, legittimava senza nessuna distinzione il ricorso al diritto della reintegra del posto di lavoro in tutti i casi dei “licenziamenti nulli”.

Di conseguenza, in virtù di tale violazione dell’essenza stessa della Legge Delega ispiratrice del “Jobs Act”, per la Corte di Cassazione si è verificato un eccesso di delega legislativa.

Per cui, la legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione, mediante la relativa Sentenza del 7 aprile 2023 emessa dalla Sezione Lavoro, è stata accolta a pieno dalla Corte Costituzionale.

In parole povere, da qui scaturisce che, per la Sentenza in questione, il famoso “Jobs Act” non ha individuato un’apposita regolamentazione da applicare anche alle altre casistiche di licenziamento considerate “nulle” che non sono state specificatamente elencate come tali nella legge perché, appunto come sappiamo, sono state escluse dall’articolo 2, primo comma, del Decreto Legislativo n° 23 del 2015.

Paradossalmente, queste altre casistiche di licenziamento considerate “nulle” – che non sono state specificatamente elencate come tali nella legge come, ad esempio, il licenziamento motivato dall’azione avviata dal dipendente per segnalare un illecito del datore di lavoro, il licenziamento in violazione delle restrizioni sui licenziamenti economici durante le emergenze nazionali certificate dallo Stato, il licenziamento contrario alle norme circa il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e il licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto per i lavoratori con problemi di tossico-dipendenza – non potendo essere configurate come licenziamenti “economici” non possono beneficiare né del diritto della reintegra del posto di lavoro e né, tantomeno, della indennità prevista per le altre forme di licenziamento illegittimo.

Tale analisi, generata dalla Cassazione, circa il vuoto normativo in questione si è basata tenendo in considerazione che la recente “giurisprudenza consolidata” – sia nel diritto del lavoro che negli altri ambiti settoriali – ha elevato al rango delle “nullità” tutte le diverse violazioni delle norme imperative.

Nella sostanza, si può dire che si ritorna, in parte, all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, periodo in cui precedenza – ricordiamo che prima il lavoratore licenziato ingiustamente otteneva in tutti i casi sempre la reintegra del posto di lavoro – i diversi Giudici avevano un più ampio ventaglio di garanzie da poter attivare a beneficio dei lavoratori, perché con la Sentenza in questione si vanno ad aggiungere ulteriori tutele rispetto a quelle previste dal “Jobs Act” anche per i licenziamenti cosiddetti “economici” e, pertanto, il diritto di reintegra del posto di lavoro non sarà una prerogativa esclusiva dei differenti licenziamenti discriminatori e di quelli disciplinari.

Sinteticamente, la Corte di Cassazione ha voluto precisare che il licenziamento “nullo” non si perfeziona unicamente nei casi dei licenziamenti discriminatori e dei licenziamenti ingiustificati (licenziamento di madre in gravidanza e in maternità, licenziamento per ragioni collegate al matrimonio, etc.).

Concludendo, limitatamente all’avverbio “espressamente” – contenuta nell’articolo 2, primo comma, del Decreto Legislativo n° 23 del 2015 – si è deliberata, ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione, la illegittimità costituzionale della norma e, quindi, ora spetta al Parlamento riformulare la norma sulla scia delle prescrizioni emanate dalla Corte Costituzionale.

Come sappiamo il 31 dicembre 2024 (per effetto dell’entrata in vigore del Decreto Mille Proroghe 2024 che ha fatto slittare la precedente scadenza fissata per il 30 aprile 2024) scadrà la nuova causale stabilita dall’articolo 24 del Decreto Lavoro la quale sancisce che, in assenza di causali appositamente disciplinate dal C.C.N.L. applicato, si potrà assumere con contratti a tempo determinato esclusivamente per i motivi sostitutivi (ad esempio, la sostituzione di una lavoratrice in maternità) oppure per una durata massima di 12 mesi tenendo conto anche tutti gli altri rapporti a termine svolti dallo stesso prestatore di lavoro per le stesse mansioni di quelle che si intende contrattualizzare.

Dunque, sarà più difficile assumere una risorsa umana con un contratto a termine in quanto si dovrà, in mancanza di previsioni contenute nel Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato all’unità produttiva in esame, stipulare un Accordo Sindacale di Secondo Livello di natura aziendale oppure di tipo territoriale con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e/o con le rispettive Rappresentanze Sindacali Aziendali così come è stato previsto dalla nuova lettera a) del 1° comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015.

C’è da sottolineare che, purtroppo, ad oggi sono pochi i C.C.N.L. che hanno individuato specifiche causali per i contratti a termine.

Nel frattempo, chiaramente ancora per pochissimo tempo salvo una eventuale proroga, il datore di lavoro e il lavoratore possono inserire, in perfetta autonomia, nel contratto individuale di lavoro delle specifiche causali che si rifanno alle “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva” dell’impresa in questione.

Rammentiamo che è obbligatorio – ad esclusione dei contratti a termine di tipo stagionale – inserire una specifica causale nei contratti a termine nelle seguenti casistiche:
• sottoscrizione del primo contratto a termine o della somministrazione di lavoro a termine qualora la durata sia superiore ai 12 mesi;
• sottoscrizione di un ulteriore contratto a termine oppure l’avvio di una somministrazione a termine dopo i 12 mesi.

Per concludere, ricordiamo – come tutti noi sappiamo – che sottoscrivere un contratto a tempo determinato superiore ai 12 mesi senza l’inserimento di una causale implica, come sanzione, l’automatica trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro.

Come sappiamo, la Circolare n° 9 del 9 ottobre 2023 emanata dal Ministero del Lavoro, di concerto con il proprio Ufficio Legislativo ed anche con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ha chiarito quanto è stato approvato con la Legge n° 85 del 2023 la quale ha convertito il Decreto Lavoro del 2023 (conosciuto anche con il nome di “Decreto Calderone”) e vale a dire il Decreto Legge n° 48 del 2023.

Le novità hanno toccato sia i contratti a tempo determinato e sia la somministrazione di lavoro a tempo determinato che sono racchiuse nei seguenti ambiti:

  • la durata massima e le altre parti essenziali del contratto;
  • le “nuove causali” introdotte con la Legge n° 85 del 2023;
  • il regime delle “proroghe” e dei “rinnovi”;
  • i casi vietati;
  • la somministrazione di lavoro a tempo determinato;
  • i contratti a termine nella Pubblica Amministrazione “allargata” alle Università private e agli Enti di Ricerca privati.

1) La durata massima e le altre parti essenziali del contratto:

la Circolare sopra menzionata chiarisce che non sono state modificate le parti essenziali del contratto a termine come, ad esempio, la durata massima che rimane sempre pari a 24 mesi e il contestuale effetto della trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato.

Tale durata massima, come già previsto anche prima del Decreto Lavoro del 2023, può essere violata qualora ciò sia permesso dal C.C.N.L. applicato, purché sia in vigenza e risulti essere in attesa di rinnovo, oppure qualora venga stipulato, dinanzi l’Ispettorato del Lavoro competente territorialmente, un ulteriore contratto a tempo determinato massimo di 12 mesi e ossia come stabilito dall’art. 19, comma 3°, del D.Lgs. n° 81 del 2015.

Le altre parti essenziali, che non sono state modificate dal Decreto Lavoro del 2023, sono quelle afferenti alle “proroghe”, al “regime delle interruzioni” (stop and go), ai contratti stagionali, al diritto di precedenza, alle percentuali massime consentite in rapporto al totale dei contratti a tempo Indeterminato, al regime sanzionatorio, alle divere forme contrattuali e alla sostituzione di altri lavoratori.

In merito alle “proroghe” è possibile attivarne sempre 4 nello stesso e identico periodo di tempo pari a 24 mesi, mentre, in merito al “regime delle interruzioni” è necessario prevedere una pausa (il cosiddetto “stop and go”) di 10 giorni nei contratti inferiori ai 6 mesi oppure un intervallo di 20 giorni se si supera il semestre.

2) Le “nuove causali” introdotte con la Legge n° 85 del 2023:

il Decreto Lavoro del 2023 si differenzia dalla precedente normativa per una differente impostazione di fondo implicando che “non basta più semplicemente limitarsi ad un mero rinvio alle fattispecie legali di cui alla previgente normativa”, ma, è necessario declinare adeguatamente la casistica con il caso concreto il quale si presenta per poter continuare ad utilizzare le causali introdotte, a qualsiasi livello, dalla contrattazione collettiva (C.C.N.L., Accordi Sindacali di Secondo Livello di natura aziendale e/o territoriale).

Tutto questo è indispensabile per non subire pretese legali avanzate dai lavoratori come accadde, in una cornice normativa differente, con il D.Lgs. n. 368/2001 attraverso cui fu possibile, a suo tempo e violando le causali, ricondurre il tutto a dei contratti a tempo indeterminato in quanto il Decreto Legislativo, prima menzionato, non prevedeva un limite temporale.

Infatti, in merito alla disciplina delle condizioni (comma 1° dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015), il Decreto Lavoro in questione ha eliminato i presupposti riguardanti le “esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività” e quelle afferenti alle “esigenze connesse agli incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria” perché ha preferito valorizzare la contrattazione collettiva (C.C.N.L., Accordi Sindacali di Secondo Livello di natura aziendale e/o territoriale) intesa come l’unica sede deputata ad individuare le diverse casistiche che consentono di apporre, ai contratti a tempo determinato, un termine superiore ai 12 mesi e, comunque, entro e non oltre il limite massimo dei 24 mesi.

Pertanto, spetta sempre alla contrattazione collettiva di stabilire le diverse casistiche a patto che il tutto sia stabilito dai CCNL, dagli Accordi Sindacali di Secondo Livello di natura aziendale e/o territoriale sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e/o dalle rispettive Rappresentanze Sindacali Aziendali così come è stato previsto dalla nuova lettera a) del 1° comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015.

Sempre in base a quest’ultimo comma, e precisamente con la nuova lettera b), le parti individuali del contratto di lavoro, e vale a dire il datore di lavoro ed il prestatore di lavoro, possono decidere nuove esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva in assenza di specifiche condizioni elencate nei CCNL e sempre se queste giustificano lo sforamento del termine dei dodici mesi. Tale possibilità, però, può essere colta dalle parti individuali del contratto di lavoro fino alla data del 30 aprile 2024 in quanto ai sindacati dei lavoratori dipenenti e ai sindacati datoriali è stato concesso un congruo periodo di tempo per poter adeguare i loro contratti con quanto è stato introdotto attraverso il Decreto Lavoro.

Infine, il Decreto Lavoro in questione permette ancora l’utilizzo delle “precedenti causali” previste dai C.C.N.L. applicati, purché siano in vigenza e risultino essere in attesa di rinnovo, e l’utilizzo delle causali introdotte con l’articolo 41-bis del Decreto Legge n. 73 del 2021 per contrastare l’emergenza sanitaria, purché sempre il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato, fino alla sua vigenza, risulti essere in attesa di rinnovo.

3) Il regime delle “proroghe” e dei “rinnovi”:

in tema di regime delle “proroghe” e dei “rinnovi” la Circolare Ministeriale in questione chiarisce che nei primi 12 mesi, a decorrere dal 5 maggio 2023, possono attivarsi sia le “proroghe” e sia i “rinnovi” senza dover apporre una specifica causale.

Ci preme sottolineare

  • anche se è una banalità, che l’istituto della “proroga” ha a che fare con uno spostamento in avanti del termine, mentre, l’istituto del “rinnovo” implica la stipula di un nuovo contratto il quale inizia dopo lo scadere del precedente accordo;
  • che nella Circolare Ministeriale in questione per “contratti stipulati” ci si riferisce sia alla “proroga” e sia al “rinnovo”.

Il Decreto Lavoro ha introdotto una novità che consiste nell’azzeramento dei numeri dei contratti a tempo determinato che si possono sottoscrivere a partire dalla data del 5 maggio 2023 e, dunque, è possibile stipulare ulteriori contratti a tempo determinato senza le causali per la durata massima di 12 mesi indipendentemente dagli eventuali contratti a termine già intercorsi prima dell’entrata in vigore del Decreto Lavoro, il quale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 4 maggio scorso.

Così facendo, per questo breve periodo, si è preferito agevolare il ricorso ai contratti a termine senza causali e, sempre rispettando la durata massima dei 24 mesi, oppure la diversa durata massima prevista dai C.C.N.L. applicati, purché siano in vigenza e risultino essere in attesa di rinnovo.

Successivamente al 5 maggio 2023 è possibile, senza causali e per ulteriori 12 mesi (24 mesi se in sommatoria con la somministrazione per lo stesso livello di inquadramento), prorogare o rinnovare quei contratti a termine, scaduti dopo tale data, la cui decorrenza si sia perfezionata prima della data del 5 maggio 2023.

Se tra la data del 5 maggio 2023 e quella del 4 luglio 2023 la parti individuali del contratto di lavoro, e vale a dire il datore di lavoro ed il prestatore di lavoro, hanno rinnovato oppure prorogato un rapporto di lavoro a tempo determinato per 6 mesi, possono attivare un ulteriore contratto di 6 mesi senza causali.

4) I casi vietati:

come sappiamo, è vietato utilizzare la forma contrattuale per i rapporti di lavoro a tempo determinato – ai sensi dell’art. 20 del D.Lgs. n. 81 del 2015 che se violato, anche su controlli dell’Ispettorato del Lavoro, implica l’automatica trasformazione in un contratto a tempo indeterminato – per

  • sostituire i lavoratori in sciopero;
  • assumere altro personale nelle unità produttive in cui nei 6 mesi precedenti si sono effettuati licenziamenti collettivi di lavoratori le cui mansioni sono identiche a quelle che si intendono inserire nei nuovi contratti a termine, salvo che la durata non sia superiore ai 3 mesi e salvo che si sostituiscono dipendenti “assenti”;
  • le unità produttive interessate dall’integrazione salariale e, contestualmente, da una sospensione dal lavoro oppure da una riduzione dell’orario di lavoro, in riferimento sempre ai quei lavoratori le cui mansioni sono identiche a quelle che si intendono inserire nei nuovi contratti a termine;
  • quei soggetti datoriali che non hanno adottato il D.V.R. e vale il Documento delle Valutazioni dei Rischi previsto dalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Dunque, si coglie l’occasione per ribadire che è, invece, possibile stipulare il contratto a termine per sostituire, ad esempio, un lavoratore in “distacco” (ex art. 30 del D.Lgs. n. 276/200) oppure in “trasferta”, tendendo sempre conto di non violare le norme circa i benefici di natura contributiva come nel caso della sostituzione di una “donna in maternità” che lavora all’interno di un’impresa con meno di 20 lavoratori.

5) La somministrazione di lavoro a tempo determinato:

come primo appunto c’è da precisare che la Circolare Ministeriale in questione chiarisce che resta ancora valida, per le “parti non incompatibili” con il Decreto Lavoro, l’altra propria Circolare n° 17 del 31 ottobre 2018.

La prima novità interessa il contratto di lavoro, in ogni sua tipologia,  dell’apprendistato che se attivato mediante un contratto di somministrazione non viene considerato nel limite del 20% rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato previsto dall’art. 31, comma 1°, del D.Lgs. n. 81 del 2015 che è afferente alle somministrazioni a tempo indeterminato.

La seconda novità ha a che fare con alcune categorie di lavoratori le quali non rientrano nel calcolo del limite del 20% prima esposto e che sono le seguenti: i beneficiari da almeno 6 mesi della Naspi e della Dis-Coll, i beneficiari da almeno 6 mesi di un ammortizzatore sociale ed, infine, le persone “lavoratrici svantaggiate” e quelle persone “lavoratrici molto svantaggiate” così come identificate dal Decreto Ministeriale del Ministero del Lavoro del 17 ottobre 2017.

6) I contratti a termine nella Pubblica Amministrazione “allargata” alle Università private e agli Enti di Ricerca privati:

il Decreto Lavoro del 2023 non si applica alla Pubblica Amministrazione “allargata” e, ossia, tale normativa sui contratti a termine non interessa neanche quei contratti stipulati dalle Università private, comprese le filiazioni di atenei stranieri, e dagli Enti di Ricerca privati.

Si parla, appunto, di “settore pubblico allargato” proprio per intendere queste categorie prima elencate così come è stato stabilito dall’art. 1, comma 3°, del D.L. n. 87 del 2018 e, dunque, per tali casistiche il contratto a termine – anche se attivato con la somministrazione di lavoro – può essere instaurato senza nessuna causale e per un massimo di 36 mesi.

In seguito alle modifiche introdotte dalla Legge n° 85 del 2023, la quale ha convertito il Decreto Lavoro e vale dire il Decreto Legge n° 48 del 2023, il Ministero del Lavoro – dietro parere dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – ha emanato pochi giorni fa la propria Circolare n° 9 che fornisce dei primi chiarimenti sulle “nuove causali”, sui “contratti acausali”, sulla moratoria dei “contratti acausali” dal 5 maggio 2023 e per un massimo di 12 mesi e sull’esclusione di alcune tipologie di lavoratori somministrati dal limite massimo stabilito per i contratti di somministrazione a tempo indeterminato e la quale, chiarisce, che resta ancora valida per le parti non incompatibili con il Decreto Lavoro in questione l’altra propria Circolare n° 17 del 31 ottobre 2018.

C’è da menzionare, come prima considerazione, che il Decreto Lavoro non ha modificato il limite massimo di durata dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e il contestuale effetto della trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato e, dunque, il limite massimo è sempre quello di 24 mesi salvo le eccezioni previste dai CCNL (ai sensi dell’art. 19, comma 2°, del D.Lgs. n. 81 del 2015) e salvo la sottoscrizione, dinanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, di un ulteriore contratto a tempo determinato massimo di 12 mesi come previsto dall’art. 19, comma 3°, del D.Lgs. n. 81 del 2015.

Ancora, il Decreto Lavoro non ha modificato neppure il numero massimo di proroghe consentite (quattro nell’intervallo di 24 mesi) e neppure il regime delle interruzioni tra un contratto a tempo determinato ed un altro (meglio conosciuto come “stop and go”).

Ancora, il Decreto Lavoro in questione permette ancora l’utilizzo delle vecchie causali introdotte con l’articolo 41-bis del Decreto Legge n. 73 del 2021 (introdotto per contrastare l’emergenza sanitaria) purché resti in vigenza il CCNL applicato ed, infine, non apporta nessuna variazione legislativa per gli enti appartenenti alla Pubblica Amministrazione, per le Università private, comprese le filiazioni di atenei stranieri, e per gli Enti privati di Ricerca Scientifica o Tecnologica.

Nella sostanza, il Decreto Lavoro è intervenuto sulla disciplina delle condizioni, sulle proroghe, sui rinnovi e sui limiti percentuali dei lavoratori somministrati.

In merito alla disciplina delle condizioni, al comma 1° dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015, il Decreto Lavoro ha eliminato i presupposti riguardanti alle “esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività” e alle “esigenze connesse agli incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria” perché ha preferito valorizzare la contrattazione collettiva intesa come l’unica sede deputata ad individuare le diverse casistiche che consentono di apporre, ai contratti a tempo determinato, un termine superiore ai 12 mesi e comunque entro e non oltre il limite massimo dei 24 mesi.

Il Decreto Lavoro, in estrema sintesi, si differenzia dalla vecchia normativa per una diversa impostazione di fondo che riguarda il fatto che “non basta più semplicemente limitarsi ad un mero rinvio alle fattispecie legali di cui alla previgente disciplina” ma è necessario declinare adeguatamente la casistica con il caso concreto che si presenta per poter continuare ad utilizzare le causali introdotte, a qualsiasi livello, dalla contrattazione collettiva.

Invece, come già riconosciuto dalla precedente legge che ora è stata sostituita dal Decreto Lavoro:

  • spetta sempre alla contrattazione collettiva di stabilire le diverse casistiche a patto che il tutto sia stabilito dai CCNL, dagli accordi sindacali territoriali o aziendali sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e/o dalle rispettive Rappresentanze Sindacali Aziendali così come è stato previsto dalla nuova lettera a) del 1° comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015;
  • sempre in base a quest’ultimo comma, e precisamente con la nuova lettera b), le parti individuali del contratto di lavoro, e vale a dire il datore di lavoro ed il prestatore di lavoro, possono decidere nuove esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva in assenza di specifiche condizioni elencate nei CCNL e sempre se queste giustificano lo sforamento del termine dei dodici mesi. Tale possibilità, però, può essere colta dalle parti individuali del contratto di lavoro fino alla data del 30 aprile 2024 in quanto ai sindacati è stato concesso un congruo periodo di tempo per poter adeguare i loro contratti con quanto è stato introdotto attraverso il Decreto Lavoro. In virtù di questa proroga concessa ai sindacati, c’è da precisare che il Decreto Lavoro ha introdotto una novità che consiste nell’azzeramento dei numeri dei contratti a tempo determinato che si possono sottoscrivere a a partire dalla data del 5 maggio 2023 e, dunque, è possibile stipulare ulteriori contratti a tempo determinato senza le causali per la durata massima di 12 mesi indipendentemente dagli eventuali contratti a termine già intercorsi prima dell’entrata in vigore del Decreto Lavoro il quale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 4 maggio scorso;
  • sempre in base al 1° comma dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015, e precisamente con la nuova lettera b-bis), le imprese e i professionisti possono ricorrere ai contratti a tempo determinato per sostituire altri lavoratori dipendenti, ad eccezione di quelli che esercitano il diritto di sciopero.

Concludendo, il Decreto Lavoro, e precisamente con il nuovo 1° comma dell’articolo 31 del D.Lgs. n. 81 del 2015, ha introdotto novità con l’intento di superare alcune criticità riferibili ai contratti di somministrazione a tempo determinato esclusivamente per specifiche tipologie di lavoratori dipendenti tra cui, la più importante, è quella di non far computare i lavoratori somministrati assunti con un contratto di apprendistato nel parametro del limite del 20% che dev’essere sempre rispettato da ogni singolo datore di lavoro che intende avvalersi anche di lavoratori presi in prestito dalle agenzie di somministrazione.

Ogni singola impresa ed ogni singolo professionista ha la libertà di scegliere di applicare il CCNL più confacente per il proprio personale dipendente ad eccezione di tre specifiche casistiche di seguito illustrate.

Come sappiamo, il CCNL da applicare rientra nella sfera di esclusiva competenza del singolo datore di lavoro e, pertanto, gli Ispettori del Lavoro potranno imporre di applicare un diverso contratto – in sostituzione del CCNL prescelto – soltanto se vi sono clausole contrarie alla legge oppure riferibili ad un settore economico differente da quello in cui opera l’impresa oppure qualora questo non rispetta il contenuto previsto dalle norme in materia di “minima” contribuzione previdenziale ed assicurativa e vale a dire la Legge n. 389/1989 (che ha modificato l’articolo 1, comma 1°, del D.L. n. 338/1989) unitamente all’articolo 2, comma 25°, della Legge n. 549/1995.

Dunque, l’Ispettorato del Lavoro non può imporre un altro CCNL, tramite un provvedimento amministrativo, teso a migliorare il profilo retributivo dei lavoratori dipendenti. Si parla, infatti, della insindacabilità della scelta del datore di lavoro, che è dunque discrezionale, sia in sede amministrativa che giurisdizionale.

Tutto questo è stato ribadito dal T.A.R. della Lombardia con la Sentenza n. 2046 del 4 settembre 2023 che accoglie il ricorso del datore di lavoro ispezionato.

La società cooperativa in questione, che svolge l’attività di guardia non armata e servizi affini, applicava coerentemente un CCNL specifico per i lavoratori dipendenti del comparto della vigilanza privata e dei servizi fiduciari il quale è stato sottoscritto da sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.

Ebbene, l’Ispettorato del Lavoro di Como-Lecco applicava all’impresa cooperativa in questione un provvedimento di disposizione ex art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004 – rifacendosi all’articolo 36 della Costituzione che sancisce una retribuzione dignitosa per i lavoratori dipendenti – tramite cui si obbligava il datore di lavoro ad adottare un diverso CCNL, precisamente uno specifico per i Multiservizi, che prevede trattamenti economici superiori con il conseguenziale obbligo di corrispondere le differenze retributive, relative agli arretrati, calcolate chiaramente in base alle tabelle del nuovo CCNL.

Al contrario degli ispettori meneghini, il T.A.R. della Lombardia con la Sentenza n. 2046 del 4 settembre 2023 annulla il provvedimento di disposizione emesso dalla sede lombarda dell’Ispettorato del Lavoro accogliendo, di conseguenza, il ricorso presentato dalla società cooperativa in questione.

Nello specifico, il T.A.R. della Lombardia si rifà esplicitamente all’artico 7, comma 4°, del D.L. n. 248/2007 che è stato convertito con la Legge n. 31/2008 il quale sancisce che il trattamento economico complessivo minimo da garantire ai lavoratori è quello stabilito dal CCNL del settore comparativamente più rappresentativo sul piano nazionale in quanto – oltre ad essere ritenuto come l’unica fonte idonea ad assicurare la proporzionalità e la sufficienza della retribuzione richiesta dall’articolo 36 della Costituzione – è considerato allo stesso tempo anche come l’unico parametro di riferimento esterno con cui comparare nel complesso la parte economica e la parte normativa previste dal CCNL liberamente scelto dall’impresa in maniera tale da garantire la libertà sindacale, anch’essa tutelata dalla nostra Costituzione Italiana.

Concludendo, le motivazioni del T.A.R. della Lombardia si ritengono validissime in quanto si ricollegano alle uniche casistiche che sono state sopra evidenziate e vale a dire che il CCNL da applicare rientra nella sfera di esclusiva competenza del singolo datore di lavoro e, pertanto, gli Ispettori del Lavoro potranno imporre di applicare un diverso contratto – in sostituzione del CCNL prescelto – soltanto se vi sono clausole contrarie alla legge oppure riferibili ad un settore economico differente da quello in cui opera l’impresa oppure qualora questo non rispetta il contenuto previsto dalle norme in materia di “minima” contribuzione previdenziale ed assicurativa e vale a dire la Legge n. 389/1989 (che ha modificato l’articolo 1, comma 1°, del D.L. n. 338/1989) unitamente all’articolo 2, comma 25°, della Legge n. 549/1995.

Nel 2010 è stata istituita dalla Assemblea delle Nazioni Unite la “Giornata Mondiale dell’Imprenditore” (World Entrepreneurs Day) a cui noi del sindacato datoriale FederPartiteIva con EB01 abbiamo preferito aggiungere la figura del Professionista, in particolare quella dei Consulenti Aziendali tra cui il Consulente del Lavoro, il Commercialista ed il Tributarista i quali rappresentano i principali Collaboratori di ogni singolo imprenditore.

Dunque, noi di FederPartiteIva con EB01 auguriamo una buona “giornata degli imprenditori e dei professionisti” a tutti!!!

È questa una ricorrenza che si festeggia il 21 agosto per celebrare chi ha intenzione di mettersi in proprio e soprattutto chi ha fondato un’impresa o uno studio professionale che ogni giorno lavora senza sosta (secondo noi non è un caso che si festeggia proprio ora che si è in vacanza) per creare benessere e occupazione.

Noi di FederPartiteIva con EB01 ci impegniamo a diffondere la cultura imprenditoriale e quella professionale per riconoscere l’elevato contributo che ogni singolo imprenditore ed ogni singolo professionista apporta al nostro Paese e alla nostra Nazione.

Come di consueto riportiamo una estrema sintesi dello studio preparato da UNIONCAMERE, i cui dati si riferiscono al 2022, il quale è incentrato sulle imprese operanti in Italia:

  • sono oltre 6 milioni, come del resto anche dieci anni fa, le imprese iscritte nel Registro delle Imprese di cui 5.129.335 sono quelle attive.

In Europa la nostra Nazione risulta essere quella con più imprese nonostante fatturino mediamente meno di quelle europee;

  • la maggioranza è composta da micro-imprese (il 60% fattura meno di 100 mila euro) che operano nei comparti del commercio (25,7% delle imprese italiane) e delle costruzioni (14,9%).

In successione, troviamo il comparto dell’agricoltura con il 12,8%, il settore manufatturiero con il 9,4%, la ristorazione assieme ai servizi di alloggio con l’8,2%, il settore immobiliare con il suo 5,4% e così discorrendo;

  • il 50,8% è composto da ditte individuali contro il 30,8% delle società di capitali;
  • il 45% delle imprese è localizzato nel Nord Italia e, precisamente, il 26% nelle regioni del Nord-Ovest e il 19% in quelle del Nord-Est.

A seguire, il 20% delle imprese è situato nel Centro Italia ed il 35% nelle regioni del Sud Italia e delle isole;

  • con oltre 954.000 imprese la regione Lombardia si attesta al primo posto seguita dalla Campania con 611.000 attività produttive, dal Lazio con 609 mila, dalla Sicilia con 479 mila e dal Veneto con 472 mila;
  • le regioni con un numero inferiore di imprese sono la Basilicata con 60 mila, il Molise con 34 mila e la Valle d’Asta con 2 mila in quanto, chiaramente, vi sono meno abitanti in quelle aree geografiche;
  • in virtù della guerra in Ucraina e dell’aumento vertiginoso dei costi dell’energia si è registrato, nel terzo trimestre del 2022, soltanto un aumento di imprese pari ad appena 13.300 unità rispetto a giugno, dato tra i più bassi degli ultimi dieci anni.